lunedì 29 aprile 2024

Cento domeniche.

Albanese come sempre è magistrale nel ruolo dell'uomo comune, quello fuori dai canoni correnti, la persona onesta che crede  nella buona fede delle persone che lo circondano. Un uomo onesto che mostra attenzione e gentilezza (spesso non ricambiata) verso gli altri. I dialoghi sono  precisi e credibili fino ad un certo punto, diventano più forzati verso la fine del film, perché lì Albanese deve raccontare persone molto lontane da lui e eticamente incomprensibil

i.  Gli incontri con la madre,  sono pieni di malinconica poesia.

E' tragica la  parabola umana di Antonio, prevedibile per tutti ma non per lui. Antonio non reagisce con la dovuta tempestività semplicemente perché quello non è il suo mondo, non è il suo sistema di valori, ciò su cui ha basato la sua intera vita. E poi la vergogna per essere stato così ingenuo, così sprovveduto. Per non avere mai letto le clausole in piccolo, fidandosi delle strette di mano e di chi lo chiamava per nome. Albanese si conferma il miglior attore italiano, capace di mettersi sulla stessa frequenza del sentire comune e della vita di tutti i giorni.

sabato 20 aprile 2024

Di te.

Di te restano gli occhi color notte in una pianura assolata.
Di te, silenzi sospesi nel caos quotidiano di un giorno qualunque, una lunga passeggiata e lo scalpiccio di scarpe usate per sedurre giovani vite.
Di te morbide curve e spigoli di un carattere unico.
Le poche parole pronunciate in un giorno di pioggia per dirmi sei mio.

sabato 6 aprile 2024

Soffia un vento pazzesco questa sera.


Da giorni Lucio non riusciva a capire il perché di questo strano fenomeno meteorologico, in quella pianura uniforme circondata da monti il vento era stato sempre una chimera, specie per quelli come Lucio che erano nati al mare, con gli occhi abbacinati dal sole, la pelle arsa dalla salsedine in quelle giornate estive piene di niente.
Al solito bar, per il solito cappuccino ed il solito cornetto, Lucio si ritrova a guardare Rosa, lo fa da anni. Ha visto i suoi capelli incanutirsi, maledetta timidezza, figlio di una mamma fin troppo mamma, ha sempre visto il corpo e l’anima delle donne, come quella della donna che per anni l’aveva “incatenato” nel nido sporco della sua coscienza, che impropriamente chiamava casa, ma non era nient’altro che una prigione.
Maria era cresciuta troppo presto, ed aveva portato alla luce Lucio in una sera d’inverno, quelle sere che sembrano tutte uguali, tanti lunedì messi in fila, anonimi e vuoti come la via principale di una cittadina di provincia operosa ma triste.
Era, Maria, pronta a crescere Lucio? Aveva superato il limite dell’incoscienza e della follia, per entrare a far parte del club delle mamme razionali e tristi? Il figlio, frutto di un amplesso veloce, nemmeno il tempo di guardarsi negli occhi, era stato uno dei tanti errori che adolescenti già adulti, sin dalla notte dei tempi commettono con sistematica regolarità?
A tutte queste domande Maria non sapeva rispondere, l’unica cosa di cui era certa è che non poteva non amare suo figlio, amarlo di un sentimento malato, come se quel piccolo fagottino con gli occhi rotondi fosse l’unica cosa della quale andare fiera.
Lei, che non aveva combinato nulla di buono fino ad allora, aveva preso contezza del fatto che suo figlio le avesse fatto guadagnare dei punti nel borsino delle giovani donne diventate troppo presto madri.
Ma tutti lo sanno, le tappe bruciate non portano buoni consigli e negli anni si accumulano frustrazioni, ritardi e rimpianti, l’ossessione per il figlio l’aveva rinchiusa in un “carcere dell’anima” che aveva bruciato fin troppo presto tutti i suoi sogni.
Il sogno di andare via, di fuggire dalla monotonia e dalla quella vita fatta di precarietà ai limiti della povertà, quelle notti trascorse tra sonni agitati e incubi, si erano trasformate in notti di pianti, di dentini che crescono, di pannolini da cambiare e di mancate baldorie con le sue giovani amiche.
Lucio cresceva troppo velocemente e in un flash aveva compiuto i suoi quarant’anni, abitava ancora con la mamma, in un bilocale di 55mq: cucina lunga e stretta, bagno idem camera da letto e stanzetta del bambino già adulto.
Al muro il poster di Michel Platini, perché il meridionale che abita al Nord, non può fare a meno di tifare la Vecchia Signora, anche se ci sarà sempre qualcuno, ogni volta che tornerà al mare nella sempre breve e uguale stagione estiva, di ricordargli che è un rinnegato, perché il “terrone”, quello vero non può amare i suoi padroni e perché nelle strisce bianche e nere della maglia, si riconosce oltre ogni ragionevole dubbio, il vestito di un galeotto e non quello di una squadra vincente e odiata come nessun’altra.
Ma a Lucio non fotteva di questi discorsi identitari, di rivendicazioni, di torti veri o presunti subiti dai suoi antenati, chiuso com’era nel suo eterno presente, tra lavoretti estivi, precarietà invernale e la sua odiatissima mamma, non riusciva ad andare oltre il qui ed ora di una monotona esistenza.
Il suo poco coraggio, gli aveva impedito di guardare Rosa con gli occhi dell’uomo maturo e sicuro. Lucio non era andato mai oltre il fugace saluto quotidiano e il commento banale alla notizia di cronaca del giorno, Rosa lo aspettava ogni giorno ferma alla cassa del bar.
Ma Maria, da donna intuitiva e tenace, come soldato sulla linea del confine, aveva fatto buona guardia ed aveva subito intuito le “brutte intenzioni” di quella svergognata, fino ad arrivare un giorno a dirle, dopo averla aspettata fuori dal bar a tarda sera, di lasciare stare suo figlio, perché Lucio puntava alto, altro che una semplice cassiera.
Rosa con uno sguardo tra il risentito e l’ebete aveva risposto che del cucciolo di mamma non le interessava niente, non era riuscita a mettere una dopo l’altra parole migliori, una difesa che era sembrata quasi una resa alla leonessa, che con fare feroce difendeva il suo piccolo.
Passarono settimane e mesi da quell’incontro/scontro con la signora Maria e Rosa incontra di nuovo Lucio, che in quel lungo periodo di assenza si era dedicato quasi esclusivamente alla costruzione del suo galeone dei pirati, rinchiuso nel suo nido d’infanzia senza voler sentire e vedere nessuno.
All’improvviso, come un temporale estivo che si materializza sulla linea dell’orizzonte, Lucio decide che è venuto il momento di “accoppiarsi” con Maria.
Alle sette di sera di un afoso e umido autunno, si reca nel bar dalle sedie di plastica bianca e dai tavolini “griffati” Peroni, per guardare i turni preliminari di Europa League, insieme ad altre dieci anime perse che affogavano i loro dispiaceri nella birra calda e in discussioni sul fine carriera dell’ennesimo fuoriclasse strapagato con residenza nel Principato di Monaco.
Maria quella sera era più bella del solito, quasi fuori contesto. Sensuale e morbida come solo una bella donna dalla vita travagliata sa essere, il vestito dai colori accesi affrontava le curve del suo corpo e i pesi della sua anima con fare deciso.
Il primo tempo di quella noiosa partita era finito, due squadre che avevano deciso di non affrontarsi, chiudendosi in difesa, un giornalista sportivo di origine francese che parlava un italiano rabberciato, che commentava con tono risentito che il gioco delle due squadre era quello tipico delle squadre italiane, quando giocano in Europa.
Maria aveva passato la giornata a far caffè e a spillare birra, la stanchezza aveva segnato il suo volto ed aveva in parte cancellato il sempiterno miracolo del trucco.
Lucio sentì che era arrivato il momento, con fare trafelato, bene attento a non farsi notare dagli astanti si avvicina e pensa di chiedere a Maria un pacchetto di caramelle balsamiche, l’idea era quella di coprire in qualche maniera l’alito cattivo causato dalla birra calda e dagli intrugli, chiamate impropriamente minestre salutari, preparate dalla sua mamma.
Rosa sorrise e con la “legittima cattiveria” tipica di chi dalla vita non ha avuto che problemi da risolvere, si rivolge a Lucio con un sorriso beffardo dicendogli – mammina questa sera ti ha tolto le catene! – Il povero Lucio, più meravigliato che risentito, abbozza una risposta degna di un preadolescente timido e imbranato – non è vero! Mia mamma mi ha sempre lasciato libero di fare quello che voglio – di rimando Maria, tenace e coriacea come un tennista “pallettaro”, che respinge ogni genere di palla, risponde aumentando la pressione sul carattere già fiacco del povero Lucio – Si, ti lascia libero di fare quello che vuoi, basta che poi, ad una certa ora torni a casa -. 
Il resto della serata, all’interno del bar più squallido della Pianura Padana, passa tra commenti alla partita di calcio, che stancamente si avviava alla fine, ed il risolino cattivo di diversi tra gli avventori, che in maniera sommessa e maliziosa, canzonavano il povero Lucio per la brutta figura rimediata.
La questione non finiva lì, perché Rosa, facendo vincere nell’animo suo, lo spirito di crocerossina, che alberga ancora in molte donne, guardava Lucio che per il resto della serata, sfogliava La Gazzetta dello Sport di due giorni prima, soffermandosi sui trafiletti di notizie di sport che nessuno, almeno in quel bar, “cagava di striscio”, era evidente che il povero cocco di mamma, aveva risentito del doppio colpo allo “stomaco” scagliato dalla lingua più veloce del Nord.
Tra fumi di sigaretta, in barba ai cartelli appesi e alle norme esistenti, rumori corporei causati dal luppolo fermentato, la serata era finita per tutta quella simpatica brigata di nullafacenti, ma non per Rosa, che da sola doveva rimettere a posto le sedie, lavare i pavimenti e controllare i conti. 
Lucio sentì che era arrivato il momento giusto, si avvicina a Rosa è riprova ad attaccar bottone, stando bene attento a non rimediar figuracce come l’ultimo degli “sfigati”.
“Senti Rosa, visto che non è ancora il momento di rincasare, che ne dici di fare un giro sulla mia Lamborghini parcheggiata in doppia fila, proprio qui di fronte?” “Non fare il disinvolto, perché non è arte tua”, rispose Rosa con il solito tono a metà tra il sarcastico e l’acido.
Questa volta però era diverso dal solito perché, la lingua più veloce del Nord, nel rispondere alla sua maniera, non aveva preventivato che un fremito di tenerezza colpisse il suo cuore inaridito, da giorni, mesi e anni di privazioni e sfortune.
Si voltò verso Lucio e con un sorriso appena abbozzato, pronunciò le seguenti parole ultimative: “senti un po’, vieni a casa mia così parliamo un po’ guardando il soffitto”. 
Chissà perché questo strano desiderio di stare insieme, guardando il soffitto. La strada che divideva il bar dalla casa di Rosa, quella sera sembrava più lunga del solito, i due la fecero quasi di corsa.
I due non riuscivano a notare il negozio di alimentari che Peppe, l’ennesimo emigrante fuggito via dal deserto, si ostinava a tenere aperto nonostante la presenza feroce di alcuni ipermercati a basso costo, che nel corso degli ultimi anni avevano inesorabilmente eroso la sua clientela.
In quel piccolo negozio di alimentari, simbolo di tempi passati e romantici, Lucio e Rosa si ostinavano a mangiare un panino con la mortadella dal sapore antico e genuino. 
La corsa dei due terminò davanti al portone della casa di Rosa, i due ansimavano ma il loro respiro affannoso era dovuto più al pensiero di quello che sarebbe successo una volta oltrepassata la soglia di casa, che al fatto di aver fatto di corsa il chilometro scarso che divideva il bar dal suo alloggio proletario.
L’ apparente calma di quella sera novembrina, li portò alla velocità della luce dentro la camera da letto di Rosa. Una camera apparentemente disordinata che nascondeva nei suoi angoli più nascosti ogni genere di sorpresa.
Una coperta all’uncinetto sapiente e paziente opera di mani antiche ed un piumone - low price - comprato in fretta e furia all’Upim, il giorno del suo arrivo nella opulenta cittadina di provincia. 
Il comodino della nonna, una bottiglietta di acqua minerale ed un vecchio libro di letture delle elementari, facevano da corredo ad una stanza neorealista.  
Lucio e Rosa sedettero in silenzio sul bordo del letto senza nemmeno guardarsi, in un silenzio imbarazzato ed emotivo, figlio di anni passati a non vivere la vita, iniziarono ad amarsi attraverso il fiatone che anticipava il loro primo amplesso. 
La luce di un lampione acciaccato dal tempo illuminava la stanza donandole una surreale atmosfera a cavallo tra la malinconia di un amore finito e la sensazione di un tempo fermo buono per fare l’amore.
Nessuna parola “decorava” le povere cose della stanza di Rosa, una mano sul collo, poi un’altra e un bacio che cade lieve sulle spalle, gli occhi luccicano, i battiti dei cuori aridi aumentano irrorando territori mai coltivati di un sangue dolce come lo zucchero.
I corpi si cercano in una surreale estasi di pensieri e carezze sempre più intime, la vergogna svanisce perché l’istinto prevale, nel mentre i discorsi castranti di Maria diventano una eco lontana e sempre meno fastidiosa.
Rosa e Lucio finirono la notte tirando il mattino come una coperta troppo corta che in una fredda notte invernale non riesce a scaldarti mai completamente, sul limitare del buio che li proteggeva finirono per ritrovarsi soli e abbracciati, fuori dal mondo che non li aveva compresi e che non aveva perdonato i loro silenzi, la loro timidezza, il loro trovarsi sempre e comunque fuori posto e fuori tempo.
Decisero di comune accordo di sfruttare il tempo rimasto in furtivi baci spesi negli androni di palazzi del popolo, conditi da amplessi e tachicardie sempre meno sporadiche che finalmente gli davano la sensazione di trovarsi in un mondo più giusto e comodo, per due crisalidi diventate farfalle troppo tardi.
                                                                                                                                                                                                                   Francesco Nicola Fabbricatore                

sabato 9 marzo 2024

Ciao papà!

Carissimo Papà.
Se dovessi parlare di te a chi non ti conosce, in mezzo al turbinio di emozioni e stanchezza di questi giorni bui, direi che la cosa che più ha segnato la tua esistenza terrena è stata la tua passione per la vita.
Ti abbiamo sempre riconosciuto un carattere spigoloso e tenero, allegro e melanconico eri un ossimoro vivente, pieno di sfumature e mille contraddizioni tutte da vivere.
Erano e rimarranno contraddizioni piene di insegnamenti per chi voleva leggerle e farle sue. La tua etica intransigente sul lavoro ci ha mostrato oltre ogni ragionevole dubbio che uno degli scopi fondamentali del nostro passaggio terreno è senz’altro il donarsi agli altri attraverso i propri talenti, il tuo era quello dei numeri, dei calcoli, della lettura del reale attraverso la razionale arte della matematica.
Molteplici sono i ricordi che in queste giorni di un freddo e piovoso inverno tardivo ci sovvengono, nel difficile tentativo di acquietare un dolore dalle radici salde e profonde.
Le tue cravatte e le tue camicie sempre perfettamente stirate prima di andare a scuola, non ho mai capito chi tra te e la mamma sapesse stirare meglio. I tuoi problemi di geometria solida con le figure perfettamente disegnate a mano su un foglio a quadretti, compiti preparati con la pazienza certosina di un amanuense dell’Alto Medioevo. 
Eri un corpo unico con la tua olivetti lettera 32, i tuoi giudizi scritti con una sintassi impeccabile, perfettamente amalgamati all’amore per i tuoi ragazzi e per il tuo lavoro.  
Generazioni di ragazze e ragazzi che hanno amato la più ostica tra le discipline e che sono diventati valenti professionisti anche grazie alla tua maestria di saper rendere facile quello che a tanti risulta oscuro e incomprensibile, compreso il sottoscritto.
Carissimo papà tu eri lavoro e famiglia, eri l’orgoglio manifestato più volte nel sapere che noi figli, nonostante i problemi e i pensieri che fanno parte del quotidiano di tutti, avevamo scelto di studiare e realizzarci ognuno secondo le proprie inclinazioni.
Eri passione e attenzione anche nelle cose che ti piaceva fare: la caccia e le lunghe camminate sulle alte colline del Poro, chilometri che stancavano tutti ma non te sorretto come eri dal tuo cuore grande e resistente. 
Un cuore che ti portava a nuotare per tante ore con maschera e pinne nelle acque cristalline del nostro mare tra cernie, polipi, spigole e cefali che se non ricordo male erano la tua specialità di omino piccolo e veloce. 
Poi c’erano i tuoi libri, la tua passione per la lettura, che un destino cinico e baro ti ha tolto negli ultimi anni della tua vita. 
La collezione dei Premi Strega, la Divina Commedia con le illustrazioni del Dorè, le enciclopedie per le nostre ricerche scolastiche, tutti strumenti che ci hai fatto amare e che seppur non figli di questa epoca iper – connessa, ci hanno permesso di affrontare con coraggio il percorso che ci ha portato all’inevitabile e doloroso addio.
Ognuno cerca e non sempre trova conforto e consolazione, chi lo trova nella fede e nella speranza di un Dio giusto e buono e chi pur nella sua più intima debolezza lo cerca nei ricordi e nelle cose belle come l’amore per la lettura e la scrittura che mi hai trasmesso e per la quale non posso che ringraziarti per l’ultima volta.
Caro papà e splendido nonno ti possa arrivare il calore dei nostri pensieri più belli e l’allegro vociare dei tuoi amatissimi nipoti descritti con amorevoli parole sempre piene di buoni consigli e di affettuosi sorrisi.
Vogliamo sperare che esista la “corrispondenza di amorosi sensi”, l’onda elettrica che va oltre la materia e che instaura il rapporto tra chi c’è e chi non c’è più, vogliamo sperarlo perché non avrebbe senso pensare che siamo un mero aggregato di cellule che nasce, cresce e muore. 
Tu papà sei stato e sarai storie da raccontare e ricordi da portare nel posto più segreto del nostro cuore, perché come ha magistralmente scritto il grandissimo poeta portoghese Fernando Pessoa: “la morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo. Non ha nido la menzogna. Mai nessuno s’è smarrito. Tutto è verità e passaggio”.
Ciao papà.

venerdì 22 dicembre 2023

Buon Natale.

Buon natale al precario senza stipendio ma con la passione nel cuore. Al cassaintegrato cinquantenne che compila le mad e mentre lo guardi ti si stringe il cuore. Buon natale alla forza che ti spinge a credere ancora che in fondo, nonostante tutto, fai il lavoro più bello del mondo. Buon Natale ai miei alunni che nel caos di questa mattina, nelle maniere più assurde mi hanno detto che mi vogliono bene. Buon Natale a chi crede ancora ad un lavoro democratico, alle mattinate passate a parlare, a comunicare ma soprattutto ad ascoltare emozioni, sensazioni e paure di vite che crescono. Buon Natale ad una comunità che resiste alle brutture di un tempo " ferino ", che ha distrutto la scuola e il suo statuto spirituale e esistenziale. Buon Natale anche a chi la scuola l'ha vissuta male e continua a parlarne male, perchè in fondo anche loro hanno un cuore e parte di questo cuore è cresciuto tra banchi, sedie, lavagne e un vociare indistinto di giovani vite. Perchè in fondo la scuola è una bella invenzione, la più bella e romantica di tutte, quel luogo dove ancora si crede che tutti, ma proprio tutti possono crescere, diventando donne e uomini migliori.

domenica 19 novembre 2023

Strage quotidiana.

Ma davvero pensate che la scuola non faccia la sua parte, seppur tra mille difficoltà, nel tentativo di insegnare educazione, rispetto, assertività e empatia? Non è la scuola a dover rispondere presente alla infinita strage quotidiana di donne giovani e non. Manca, per utilizzare una locuzione molto abusata, la certezza della pena, quella che razionalmente ci fa pensare che ad ogni azione corrisponde una reazione. Manca, in una comunità atomizzata e nichilisticamente individualista, il senso ultimo del considerarsi comunità. Persi come siamo nell'inferno quotidiano delle nostre giornate sempre uguali, a capo chino nelle nostre gabbie di cristalli liquidi, non abbiamo più il coraggio e non superiamo la " vergogna " del chiedere aiuto, perchè si sa, chi chiede aiuto è un debole e come tale non meritevole di fare parte della squadra dei vincenti. La " sconfitta " di un rifiuto, la " fine " di un rapporto o più semplicemente un no per una banalissima discussione diventano un muro altissimo da superare. Manca la cultura della sconfitta, vista come elaborazione dell'errore. Avete mai letto alcune chat di classe tra genitori immaturi? Avete mai pensato al linguaggio che usate in presenza dei vostri figli? Avete presente le liste di " proscrizione " di un compleanno tra bambini delle prime classi delle elementari? Avete mai sentito le parole " innocenti " rivolte ai bambini cui non piace giocare a calcio? Siete mai stati in un campetto di periferia, la domenica pomeriggio ad ascoltare le urla belluine di genitori per caso. Ed allora se proprio vogliamo iniziare la nostra azione " pedagogica " pensiamo, tutti nessuno escluso, a quanta inutile e tragica violenza trasuda dai nostri gesti e dalle nostre parole. Anche perchè, nelle comunità ancora intrise di patriarcato, che non è nient'altro che la cultura del possesso attraverso l'utilizzo della forza bruta e della coercizione psichica, ci mancava solo il cancro del capitalismo darwiniano che fagocita il più debole della catena alimentare.

lunedì 7 agosto 2023

Praticare fragilità

Da un po' di tempo pratico la difficile arte della fragilità. 
In mezzo ad una temperie culturale che segna il tuo percorso terreno in tutt'altra direzione, penso che questa scelta sia davvero rivoluzionaria.
 Non certamente per i destini dell'umanità, non sono così sciocco da credere a simile panzana. 
Rivoluzionaria perchè credo fermamente che  bisogna avere coraggio, quello che ti porta alla faticosa arte dell'ascolto, nel ritrovare nel viso dell'altro da te, quella scossa elettrica che da un senso alla nostra storia, da raccontare scandendo ogni singolo secondo.
Una storia fatta di sguardi e parole, di silenzio e di tempo lento che inesorabile scorre.
 Praticare fragilità significa anche ritornare bambini, come quando con occhi pieni di  stupore credevamo a ciò che vedevamo, con pensieri e emozioni non inficiati dalle sovrastrutture ideologiche del produrre e dell'apparire.
Fragilità è anche lasciar parlare il proprio corpo, perchè ogni età ha la sua bellezza, nervosa e veloce da giovane, riflessiva e costruttiva da adulto, serena e saggia da anziano.
Praticare fragilità costa, ha un prezzo enorme, che è quello di una visibilità molte volte fraintesa agli occhi degli altri, ma porta anche diversi benefici: la serenità di chi non si prende troppo sul serio, la consapevolezza della propria esistenza in funzione di uno scopo, ma soprattutto il fatto che si vive solo se, pur in mezzo alle procelle della vita, hai braccia forti e mente salda, perchè la linea dell'orizzonte non è mai troppo lontana.

Cento domeniche.

Albanese come sempre è magistrale nel ruolo dell'uomo comune, quello fuori dai canoni correnti, la persona onesta che crede  nella buona...